Per il Black History Month a Firenze ci fu la settimana dell’Afrodiscendenza, con eventi dal 20 al 25 febbraio, ed accesso gratuito ad alcune mostre e discussioni durante la settimana (come avevo accennato brevemente un mesetto fa, perchè temevo una cosa del genere).
L’evento che più mi attirò fu il il Kibaba Florence Festival di Cinema Africano, giunto alla sua 5°a edizione, e stavolta ospitato nello Spazio Alfieri di Firenze.
Sono stati proiettati 3 (beh, non proprio, ma ne parliamo tra poco) corti di 15 minuti e 2 lungometraggi su temi che vi aspettereste, da registi italiani di ascendenza africana e non, e quasi ogni regista dei corti era presente in loco per discuterne. 5 euro il biglietto per il tutto, quindi pure ben oltre l’onesto il prezzo.
Parlerò brevemente in micro-recensioni delle singole opere, nell’ordine in cui sono state proiettate, non sono qui per parlare della ricorrenza in sé (e tutto ciò che ad essa si collega), sono qui per parlare di cinema, poco da farci oramai (visto che questo articolo arriva un mese e passa dopo).
Ambaradan di Paolo Negro | Italia, 2017 (Corto)
L’integrazione è sempre difficile, ed un paese come l’Italia, il continuo rigetto del “forestiero”, di quello che non sia l’italiano bianco come un vampiro (senza offesa per Wesley Snipes), a volte crea tensioni e mostri inusitati, come il protagonista di questa storia, Luca, un nero nazi-fascista, un’ossimoro vivente.
In continuo conflitto con il suo essere italiano e non essere considerato tale, questo corto tratta un risvolto poco discusso delle tensioni etniche del nostro paese, perchè non ogni ragazzo cresciuto in Italia, la cui etnia è sempre usata contro di lui, verrà necessariamente su buono e bravo perchè è quello che ci aspetta da lui.
Pur di non sentirsi continuamente osteggiato, pur di sentirsi un poco accettato, Luca vive questo parodosso, continuando a nutrire un odio cieco per tutti ed il conflitto interiore, finchè esso non esplode. L’essere ambientato nella Roma degli anni ’90 a Roma non data nulla, viste le recenti tensioni.
Secondo me il miglior corto della selezione presentata, sebbene se la giochi alla pari con Jululu.
Le Ali Velate di Nadia Kiabot | Italia, 2016 (Corto)
Opera prima della regista, Le Ali Velate racconta di due donne, completamente diverse tra loro, portate assieme dal fato (via un servizio di car sharing) in quello che sarebbe un semplice incontro tra due persone di ascendenza e cultura completamente diverse, l’una donna italiana come tante, l’altra una donna in burka con figlio come tante, ma quelle che dovrebbero essere piccole deviazioni portano a galla la dualità culturale in cui Nadia vive, e le difficoltà che nascono dal desiderio di evadere da una realtà alla quale siamo purtroppo legati.
La mia critica maggiore è che dura troppo poco, sì, è un corto, ma anche con la regista stessa (presente per domande in loco) che mi ha confermato come fu sempre inteso come cortometraggio di 15 minuti, rimane la sensazione che ci sia modo di raccontare molto di più con questo setup, di farlo lungo almeno 30 minuti, c’è decisamente spazio per espandere l’idea senza esagerare.
Jululu di Michele Cinque| Italia, 2017 (Corto)
Jululu è la storia della rivolta dei braccianti “di pomodori” in Italia, o meglio, delle condizioni che hanno portato ad essa, con Yvan Sagnet, importante esponente di suddetta rivolta, che narra dei ghetti dei lavoratori agricoli immigrati, quelli che nel sud Italia (Foggia, in questo caso) lavorano nelle vaste piane di pomodori, raccogliendone quintali per paga da schiavitù, criticando l’intero sistema che permette questo sfruttamento.
Il tutto è raccontato come un’avventura musicale da Badara Seck, musicista griot senegalese, un’avventura alla ricerca di Jululu, lo spirito collettivo africano, in questi ghetti dell’Africa italiana.
Ottimo corto che vinse anche il premio “Miglior Regia” alla 74° Mostra del Cinema di Venezia per la sezione MigrArti.
Watatu di Nick Reding | Kenya, 2015 (Film)
Nella città di Mombasa due vecchi amici, Jack e Salim, si rincontrano, ma la loro amicizia è messa alla prova dall’ostilità non solo tra le due famiglie, ma anche con diversi gruppi locali, che vedono di malgrado il fatto che Jack sia un poliziotto. Il nipote di Salim, Yusuf, è pero sempre più frustrato dal fatto che nonostante sia laureato viene discriminato, non trova lavoro, ed il sentimento di impotenza che prova lo rende sempre più attratto da una linea di pensiero radicale.
La famiglia di Yusuf non riesce a fargli cambiare idea, e neanche Salim, l’unica figura paterna di Yusuf, riesce a dissuadere il nipote, il che porterà le due famiglie a scontrarsi, fomentata da antiche rivalità e divise. Ma c’è dell’altro, visto che il film si ferma e viene fatta una discussione di gruppo su come poteva andare la trama, su come si poteva evitare un finale del genere.
Ecco, a costo di risultare crudele, devo essero sincero che verso la fine ero un po’ stufo di vedergli discutere in gruppo di come poteva finire in maniera diversa, anche se è interessante vedere la natura corale dell’opera e questo si sposa perfettamente con il messaggio del film, ero stufo perchè il film in sé dura circa un’ora, ma diversi minuti dopo il finale della storia sono spesi a vedere suggerimenti dal pubblico, a volte chiamato ad improvvisare la scena con gli attori (e poi vedete scene il che è sempre interessante.
Il mio problema maggiore è che questa parte/non-parte del film, per quanto davvero solare ed allegra, positiva assai (un pelo più di quanto gradisco, ma sono un po’ cinico, va detto)… semplicemente dura più di quanto doveva, secondo me. Non il problema della vita. 😉
Blaxploitalian – Cent’anni di Afrostorie nel cinema italiano di Fred Kuworn| Italia, 2016 (Film)
Fred Kuworn, regista di origini ghanesi nato e cresciuto a Bologna e poi naturalizzato newyorkese (che parla in inglese con un accento notabilmente italiano, certi stereotipi sono veri XD), indaga sulla presenza dei neri/persone di colore/il termine che vi pare nel cinema italiano, o meglio sulla presenza secondaria e rilegata a stereotipi, alla tipizzazione che non colpisce solo le persone di discendenza africane, un tempo usate per stereotipi comici offensivi od oggetto del desiderio sessuale, ed ancora oggi colpisce vari gruppi etnici, rilegata a ruoli socialmente spregevoli come spacciatore, clandestino, prostituta, etc.
Interessante, approfondito (come potete pensare che sia visto che vuole idealmente coprire 100 anni di persone africane nel cinema nostrano), con molti interventi ed molti momenti divertenti, con un’attitudine ironica alle assurdità del tempo e di oggi, senza però trattare con sufficienza i problemi seri che ci sono alla radice.
Era quello per cui ero venuto principalmente a vedere il festival, e non ne sono rimasto deluso.
….. ma aspettate, c’è di più!
Sì, c’era anche un corto non listato nel programma, che fu mostrato prima di Jululu e dopo Le Ali Velate, Rhino.
Devo ringraziare Justin Randolph Thompson (ed a sua volta Matias Mesquita per avermi aiutato a contattarlo) per molte info sul corto, perchè onestamente non riuscivo a trovare nessuna info, sul programma (pdf o foglio stampato dato all’entrata) , appunto, non c’era menzione del corto, tanto meno sinossi, data d’uscita e paese di produzione o nome del regista, che fu detto ma onestamente non mi ricordai. Nulla comunque di discernibile dal corto in sé, a parte l’essere girato chiaramente a Firenze, e neanche IMDB mi aiutò, visto i diversi risultati per “Rhino”, nessuno dei quali corrispondeva a quanto visto.
Quindi, ora che saccio, cosa è Rhino?

Screenshot dal corto precedente di Kevin Jerome Everson, ovvero Rhinoceros (non riesco a trovare immagini di Rhino, purtroppo).
È un corto di 23 minuti diretto da Kevin Jerome Everson, girato a Firenze nel maggio 2017 (con premiere ottobre 2017 al Tate Modern), un corto sperimentale che inscena gli ultimi giorni di Alessandro De’ Medici, il primo duca di Firenze, nato da una serva Africana (per questo detto “il Moro”, ed il cui emblema recava un rinoceronte, dando senso al titolo, ed in altra lettura, sottendendo che anche i Medici erano meticci e di origine varia, lettura rinforzata dal fatto che le due specie di rinoceronte africane siano quella di rinoceronte bianco e nero), ed assassinato da suo cugino Lorenzino De Medici durante il quinto anno al potere.
É anche un seguito al corto precedente del regista (Rhinoceros, 2012), e si prefigge di esplorare il movimento e le storie di persone di ascendenza Africana spostandole nel passato dell’erede illegittimo della famiglia Medici, ma girando il tutto nella modernità.
Ecco, io tutto questo non lo sapevo quando ho visto il corto. Non è che non conoscessi la famiglia Medici, è che francamente non sapevo la storia di Alessandro De Medici, ed anche in retrospettiva, non so se era inteso come una sorpresa, perchè di sicuro non fu positiva per me. E doverlo capire ben dopo aver visto il corto in sè è una cosa che fino ad un certo punto posso incolpare alla mia ignoranza, visto che anche se non avessi letto la sinossi dei corti e film al Kibaba Florence Festival, non avrei avuto problemi a seguirgli e capire le tematiche, i messaggi, la visione di essi a cui puntano.
Certo, aveva molto più senso presumere che chiunque venga a Firenze sia di lì e quindi sappia bene la storia dei vari membri della famiglia dei Medici, e questo era girato come un corto di cinema privato sperimentale, quindi meno narrativo (nonostante il rifarsi alla storia fiorentina), ma il mio punto è che, onestamente, Rhino è comunque assai bruttino, oserei dire.
Girato con tutte le buone intenzioni del mondo, ma anche in una qualità terribile (e non so come, il mio telefono fa video di una qualità migliore, e Sean Baker ha girato Tangerine su Iphone 5s) con attori chiaramente del luogo (sono toscano, sì, ma in questo corto c’è troppo accento fiorentino comunque) e chiaramente inesperti, e quando non vediamo questi rievocare dialoghi storici tra Alessandro ed i suoi sottoposti, ci sono one-take in cui persone di colore parlano (guardando in camera) della loro… esperienza in Italia, presumo, visto che alcuni parlano discretamente italiano, altri parlano in francese con sottotitoli, altri parlano con un forte accento ma non ci sono sottotitoli (quando invece servirebbero), ed anche se ora capisco il perchè….. mi sembra tutto “a caso”.
E francamente sembra che abbiano fermato gente di colore a caso a Firenze per fare queste sequenze, il che va bene (ed ha perfettamente senso per questo tipo di cinema), ma se mi devi far sentire persone parlare di/fare cose a caso (pressapoco), almeno assicurati che riesca a capirlo, mettendo sottotitoli od usando microfoni migliori. O non avere scene piene di silenzi imbarazzanti, riempiti da persone (e dico persone perchè anche con l’aiuto di Justin non sono riuscito a trovare informazioni sul cast) che rievocano dialoghi tra il Duca (no, non quello) ed i suoi servitori.
Anche una volta che so cosa sta succedendo, non posso dire che Rhino mi piace (forse sono un pò ottuso, ma mentirei a dire che mi è piaciuto perchè mi sento “obbligato” a dire che mi è piaciuto), in tutto onestà l’ho trovato esasperante (decisamente la cosa che ho meno gradito della selezione altrimenti ottima di film e corti per questa edizione del festival), ma appunto perchè non lo ritengo un’esperimento riuscito, invito Kevin Jerome Everson a riprovarci o continuare su questo percorso, l’idea è interessante, e non lo dico in senso sarcastico, per niente. Buona fortuna!
E sì, molto probabilmente (altro lavoro permettendo) tornerò all’edizione 2019! 🙂